martedì 24 marzo 2015

Quel che resta del castello d'Invorio: una torre, un fantasma e un romanzo.

So poco di castelli, ma quel che so è una certezza: ogni castello ha il suo fantasma e ogni fantasma ha la sua storia - e il castello di Invorio non fa eccezioni.
Tutto ha inizio domenica, una giornata bigia e bagnata: una giornata speciale, perché il cancello del castello d'Invorio è aperto ai visitatori in occasione delle Giornate di Primavera del FAI. Un'occasione ghiotta: armata di occhi ben aperti e macchina fotografica, non voglio farmela scappare.

Il castello.

Il castello ha origini antiche e a tratti nebulose: costruito su una collina, controllava tutto il territorio circostante. Nel Medioevo passò di mano in mano ai vari signori del territorio: i conti di Pombia, i conti di Biandrate, il Comune di Novara, i Visconti. Distrutto nel 1358 da Galeazzo Visconti (per non cederlo al marchese del Monferrato), ora del suo antico splendore rimangono la torre e alcuni tratti di mura del primo e secondo recinto: immersi nel parco privato assieme ai palazzi seicenteschi dei Visconti d'Aragona, sfoggiano una merlatura ottocentesca a coda di rondine.
Il suo fascino è intatto. La torre svetta sul paese ed è motivo d'orgoglio anche per una "straniera" come me: ammiro i sui diciassette metri di pietre grigie, mi soffermo (e accarezzo!) le decorazioni a rilievo dei conci angolari, ne colgo i rimaneggiamenti successivi e riconosco le caratteristiche - la porta d'accesso a qualche metro da terra, le finestre alte e strette.
Dall'alto del parco cerco il tetto di casa nostra e il lago, laggiù, oltre le cime degli alberi e le colline. 

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Il fantasma.

Nelle notti più buie e nelle menti più fantasiose, tra le pietre grigie di muri e torri svettanti, s'aggira un'ombra candida e luminosa di donna: i capelli sciolti al vento, il volto rigato di lacrime, la veste d'altri tempi e un canto di dolore che si diffonde nel silenzio. Piange la morte prematura, il tradimento, l'amore perduto, l'amore violento, l'amore dolcissimo. Piange le sue sventure, e il suo nome è Margherita.
Da viva, quasi settecento anni fa, era nipote e cugina dei Visconti, sposa del nobile Francesco Pusterla di Milano e madre. Era molto bella e il cugino Luchino tentò in ogni modo di conquistarla - invano. Francesco, adirato e oltraggiato, partecipò a una congiura per ucciderlo - invano. Margherita, rinchiusa nel castello d'Invorio e disperata per la morte del marito, continuò a rifiutarsi al cugino e costui, spazientito, la murò viva nella torre. Dove morì - invano. Perché nelle notti più buie racconta in eterno le sua storia al vento.

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Il romanzo storico.

Nell'Ottocento sbocciava e fioriva il romanzo storico - il più famoso per gli italiani è I promessi sposi del Manzoni. A quell'epoca gli scrittori romantici riportavano in vita le vicende del passato, i giovani innamorati e le lotte fra nobili casati di secoli prima: un po' per ritrovato interesse nei confronti del passato, un po' per orgoglio storico, un po' per patriottismo (e aggirare la censura del tempo).
E così, lo storico Cesare Cantù pubblicò nel 1838 il racconto storico Margherita Pusterla, pervaso di un cupo pessimismo e privo di qualsiasi lieto fine: moriranno Margherita, Francesco e i figli; morirà, infine, Luchino; moriranno i malvagi e i buoni. Non c'è da meravigliarsi: il Cantù scrisse il suo racconto qualche anno prima, nella solitudine delle prigioni austriache, usando il fumo di candela come inchiostro, gli steccadenti come penna e carte straccie, dategli per altri usi. E fu un successo.
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I 100 castelli Novara: per maggiori informazioni e una bibliografia completa

giovedì 19 marzo 2015

Il piccolo libro dei colori

Mi vesto di nero e vivo in una casa bianca, eppure i colori sono entrati nei miei pensieri e tra le mie parole passando da una porta speciale: la cultura. Li vedo sui murales della navigazione ogni volta che parcheggio ad Arona, li vedo scorrere negli ultimi sessant'anni con la color designer Francesca Valan e li ascolto raccontare la loro storia dalle pagine di un libro speciale: Il piccolo libro dei colori di Michel Pastoureau e Dominique Simonnet.

Michel Pastoureau è un antropologo e storico del colore francese esperto in simbologia. Sì, uno storico del colore: conosce i colori dalla loro storia, strettamente legata a quella dell'umanità, andando oltre le nozioni scientifiche dell'età moderna e indagandone il loro significato tra le fonti del passato.
Perché i colori sono sempre esistiti, creati e usati dalle persone per rappresentare le proprie idee fin dalla preistoria: in base alla facilità o meno di ottenerli e al loro utilizzo, esprimono un'anima, un carattere e un valore in mutamento nel corso dei secoli e dei millenni. Possiedono un codice segreto a cui tutti obbediscono inconsciamente. Ancora oggi.

Il colore è luce e materia: la luce delle fiaccole nelle grotte, delle lucerne a olio, delle candele, delle lampade a petrolio, delle lampadine a incandescenza, fino a quella dei neon e dei led; la materia della terra, degli animali e delle piante, diventata poi sintetica.
Il colore è simbolo e convenzione: quel che muta è la percezione, in base al progresso tecnologico, alle culture e alle epoche.
E così questa è la storia dei colori nella cultura occidentale, ricostruita in anni di studio dall'autore.

La storia dei colori.

In origine, nei tempi più antichi, esistevano tre colori fondamentali: il rosso, il bianco e il nero.
Poi, tra il 1100 e il 1200, nella cultura europea si aggiunsero altri tre colori di base: il giallo, il verde e il blu. Nel corso dei secoli sono stati investiti di significati diversi e oggi ciascuno di loro è un simbolo ambivalente (negativo e positivo); tranne il giallo - negativo tout court.

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Col passare del tempo sono arrivate le mezze tinte: il viola, l'arancio, il rosa e il marrone. Colori che hanno bisogno di un riferimento in natura (fiori e frutti) per essere identificati  e che incarnano nuovi simboli.
E il grigio, un colore a sé: non ha referenti in natura, ha un duplice simbolismo ed è conosciuto fin dall'antichità. È il colore che racchiude in sé tutti gli altri ed è ricco di sfumature - chi dipinge lo sa.

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Oggi esistono infinite sfumature di colori dai nomi poetici e un'identità "sfocata", senza simbologia ma solo un significato estetico: infinite sfumature, sebbene l'occhio umano ne può riconoscere solo duecento!

E se...

Se i colori non esistessero affatto? Insomma: i bambini ne contano tre, Aristotele quattro, gli studiosi di Oxford nel 1200 cinque o sei, Newton sei - poi s'è corretto aggiungendo l'indaco, ma solo perché al tempo la moda imponeva sistemi di sette o dodici elementi (dodici sarebbero stati davvero troppi). Se... un colore che nessuno guarda non esite? Lo afferma Goethe e lo dichiara Pastoureau.
E lo credo anch'io.
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Buon vento!

giovedì 12 marzo 2015

La festa del Tredicino di Arona: un viavai di santi

Domani ad Arona si festeggia il Tredicino. Quand'ero bambina aspettavo questo momento col fiato sospeso: nell'aria si diffondeva un profumo dolcissimo di zucchero filato e il baccano allegro delle giostre. Quando poi tutto finiva, spuntava la primavera.
Sui banchi di scuola imparavo che il 13 marzo di ogni anno gli aronesi festeggiano i loro patroni. Ogni anno, faticavo a ricordare i loro nomi difficili e buffi: Graziano, Felino, Fedele e Carpoforo.  Qualcuno potrebbe pensare che il santo protettore di Arona sia San Carlo Borromeo, visto che qui vi è nato, ma non è così: Arona ha sempre avuto qualcosa di magico, una propensione al racconto, perciò non ti devi sorprendere se la storia dei quattro santi è legata alla storia di San Carlo e anche alla storia di un conte. E a un bel po' di leggende e fantasia.
Mettiti comoda, inizio a raccontarti.

C'era una volta un conte.

C'era una volta, circa mille anni fa, un conte: si chiamava Amizzone conte del Seprio. Di lavoro faceva il soldato e comandava le truppe di mercenari dell'imperatore Ottone I di Sassonia: si trovava spesso a combattere dalle parti di Roma e proprio lì, un giorno, diede inizio alla nostra storia. Capitò, infatti, che nella foga del proprio mestiere devastò la basilica di San Paolo fuori le Mura e per questo fu punito con una penitenza esemplare: rientrare a casa e fondare un monastero e una chiesa. E così Amizzone fece: chiese al vescovo di Perugia il permesso di prelevare le reliquie dei santi Graziano e Felino, e le portò con sé nella sua nuova chiesa di Arona.

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C'era una volta una coppia di santi.

C'era una volta, circa millesettecento anni fa, una coppia di santi, soldati romani di religione cristiana: Graziano e Felino. A quei tempi l'imperatore Decio cercò di curare la crisi dell'impero romano restaurando gli antichi valori politici e religiosi: chi non seguiva la religione di stato veniva perseguitato e ucciso. E così Graziano e Felino, assieme ad altri cristiani, furono decapitati. Poiché si trovavano dalle parti di Perugia, sono chiamati santi martiri di Perugia e lì furono conservati i loro resti. Finché, quasi settecento anni più tardi, il conte Amizzone li portò via con sé ad Arona. Ben presto in loro compagnia arrivarono i resti di altri due santi.

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C'era una volta un'altra coppia di santi.

C'era una volta, sempre circa millesettecento anni fa, un'altra coppia di santi, soldati romani della Legione Tebea: Carpoforo e Fedele. Si dice che la Legione Tebea fosse formata da quasi settemila soldati egiziani di religione cristiana, combattenti per l'imperatore Massimiano lungo i confini orientali dell'impero romano e in Europa centrale. Quando l'imperatore ordinò di uccidere delle popolazioni cristiane, loro si rifiutarono: tentarono di scappare, ma furono catturati e giustiziati dalle parti di Como e lì furono conservati i loro resti. Finché, quasi novecento anni più tardi, un monaco comasco le portò con sé nel monastero di Arona.

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C'era una volta un altro santo.

C'era una volta, quasi quattrocento anni fa, un altro santo: Carlo, nato ad Arona dalla nobile famiglia Borromeo e impegnato a raddrizzare la Chiesa e l'indisciplinata diocesi di Milano. Quando Carlo decise di trasferire le reliquie dei santi Carpoforo e Fedele da Arona a Milano, la popolazione aronese protestò - nonostante si fosse dimenticata di loro. Tanto fecero gli aronesi, che Carlo decise di riconsegnare gli avambracci sinistri dei due santi: così il 13 marzo del 1576 fu organizzata una memorabile festa popolare e istituiti un giorno festivo e una fiera per ogni anniversario a venire. Per simpatia, assieme a Carpoforo e Fedele sono commemorati anche Felino e Graziano.

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Ed ecco perché, tra storia, leggende e un gran viavai di santi, si festeggia il Tredicino ad Arona.

lunedì 9 marzo 2015

Camper e viaggi mentali

Una passeggiata un po' speciale, quella di domenica. Abbiamo preso la macchina per raggiungere il parco delle esposizioni di Novegro con la scusa di curiosare tra camper e caravan. In realtà è l'occasione ghiotta per incontrare degli amici.

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Fotografia di Monila
La mia passione per i camper risale all'infanzia, quella del marito alla sua gioventù: io non son mai salita su un camper vero (con la fantasia viaggiavo su un van giocattolo blu e rosso), lui sì. Entrambi abbiamo scoperto di avere questo amore in comune e spesso ci concediamo pellegrinaggi nelle fiere di settore in cerca della nostra casa su ruote.

Tre anni fa al Salone del Camper di Parma, la nostra missione era scoprire se siam più gente da camper o gente da caravan. La nostra vacanza ideale è itinerante, amiamo spostarci, osservare i paesaggi mentre percorriamo le strade, decidere all'ultimo momento di fermarci in un posto perché ci ispira - perciò la risposta è: siamo gente da camper!

L'anno dopo, ancora al Salone del Camper di Parma, il quesito che anima le nostre ricerche riguarda il tipo di camper: siamo gente da autocaravan mansardato, semintegrale (profilato), integrale (motorhome) oppure da camper puro (van - cioè un furgone)? Il mansardato è come una casa a due piani: il soppalco sopra la cabina di guida ospita la camera da letto matrimoniale. Il semintegrale e l'integrale sono come case a un solo piano, quindi più veloci e maneggevoli da portare in giro. Il van è come un monolocale ridotto ai minimi termini (piccolo e spartano), quindi è comodo da guidare come una macchina monovolume. La nostra vacanza ideale è fatta di viaggi, ma anche di soste in città e per spostarci nei centri abitati l'ideale è un camper compatto (lungo meno di 6 m e il più stretto possibile). Scartiamo subito semintegrali e integrali: quelli piccoli hanno il letto basculante, che dal soffitto scende fino a coprire l'area pranzo - si deve essere una coppia sincronizzata al massimo nei tempi di veglia e sonno (e noi non lo siamo). Il van sarebbe l'ideale, ma - devo ammetterlo - non ho più l'età per vivere in uno spazio così ristretto da sembrar quasi claustrofobico. Perciò la risposta è: siam gente da camper mansardato!
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Quest'anno, alla Mostra Mercato Italia Vacanze di Novegro, vogliamo capire quale sia la configurazione giusta per noi: siamo gente da ingresso vicino o lontano dalla cabina di guida, da cucina in linea o a L, da frigorifero grande o piccolo, da bagno minimale o confortevole, da disposizione classica o contemporanea-a-effetto? Sappiamo esattamente come dev'essere la nostra casa su ruote: appena si apre la porta d'ingresso si entra in soggiorno (la dinette), subito a sinistra dell'ingresso si sviluppa una bella cucina in linea con un bel piano di lavoro e un frigorifero sottopiano (quanto è bello fare la spesa nei mercati di paese?), sul fondo un bel bagno confortevole e luminoso, sul soppalco la camera da letto - tanti vani e pensili in cui organizzare vestiti, cibo, stoviglie e libri. Semplice, spazioso anche se compatto, luminosissimo di luce naturale (non di lucine a led - che manco sull'Enterprise...) e comodo da vivere: in poche parole ci piacciono gli autocaravan di una volta, i fascinosissimi "seconda mano". Perciò la risposta è: siam gente da camper mansardato classico!

Non c'è due senza tre, quindi il quarto è quello giusto: riusciremo l'anno prossimo a trovare, acquistare e vivere la nostra casa su ruote? Non lo so, ma intanto incrocio le dita...

giovedì 5 marzo 2015

Una passeggiata nel centro di Londra

Ero a Londra, questo fine settimana. Da venerdì sera a domenica mattina, per un totale di quaranta ore - in realtà, togliendo le sedici ore di sonno e l'ora di viaggio in taxi verso l'aeroporto, fanno ventitre ore londinesi. Un viaggio programmato da tempo, ma per vari motivi mai organizzato: si parte, si va e poi si decide. Magari non si torna (desiderio).

Arrivo a Londra in treno, dalla stazione di Epsom della contea del Surrey, in Inghilterra. Colpita dalla velocità dei bigliettai, dalla puntualità dei treni, dalla pulizia e dal costo del viaggio (alto). In molto meno di un'ora, al posto di campi verdi e cavalli al galoppo, trovo la città.
Dalla stazione di London Victoria alla fermata della metropolitana a Euston Square e poi all'albergo lungo Gower Street, sul confine tra i due quartieri di Bloomsbury e Fitzrovia. È buio, ormai, i mattoni degli edifici universitari si tingono di bruno, le luci della via si accendono di giallo e la gente scorre sui marciapiedi e attraversa le strade in gruppi, ridendo e scherzando ad alta voce. È venerdì sera: i mille locali tradizionali e alla moda accolgono i londinesi festanti, i vetri appannati e le porte che, aprendosi, lascian fuggire la musica e il vocio gioioso.

Vedo tutto questo e sto bene: la vivacità, la confusione, la gente che sa dove andare e la storia di questi posti mi riempiono l'anima. Sono stanca, ma non vedo l'ora di posare la valigia in albergo e scendere di nuovo per strada a cercare un locale per mangiare (cucina tipica, of course). 

La vera vacanza inizia, quindi, con un original beef pie (il saporito tortino di pasticcio di carne alla birra) al Rising Sun di Tottenham Court Road e continua il giorno dopo con un interminabile giro turistico nel cuore della città: dal centro del potere politico e religioso di Westminster - Downing Street, Buckingham Palace, Westminster Abbey, House of Parliament e il Big Ben - agli animali nel verde di St. James's Park; da una riva all'altra del Tamigi attraverso l'azzurro London Bridge; dalle mura storiche della Tower of London alla silhouette illuminata da mille lucine di Harrods.

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Leggo i nomi delle strade, riconosco qualcosa di noto, registro colori, forme e sapori. Mentre il vento scompiglia la stanchezza e arruffa i ricordi (son già stata in questa città - e me ne ero già innamorata - più di vent'anni fa), provo uno strano sentimento, come di ritorno e di scoperta fusi assieme. Purtroppo ricordo poco di Londra, ma so di esser stata felice: bevo ogni sensazione per farne il pieno.

La giornata pian piano scivola verso la fine, seguo le ripide scale della metropolitana e mi ritrovo in albergo. Una cena tranquilla al pub Malborough Arms di Torrington Place: a quest'ora di sabato le strade e i locali son quasi vuoti, posso godere fino in fondo dell'atmosfera e sondare le mie emozioni. Provo un irrefrenabile desiderio di fermarmi qui, a tempo indeterminato.

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