giovedì 27 giugno 2019

“La gioia del vagare senza meta”


Se non ti è mai capitato, mi spiace proprio. Perché in una via parallela, mentre i turisti pernottano, gli escursionisti rincasano e i viaggiatori attraversano il mondo, c’è chi va sospinto dal piacere di camminare, osservare, esserci, dalla curiosità e dalla ricerca della bellezza, per il semplice gusto di farlo.
  La via parallela è la flânerie, l’arte di passeggiare provando emozioni per ciò che si osserva. Ben descritta ne La gioia del vagare senza meta di Roberto Carvelli.

Flânerie in italiano si traduce con “andare a zonzo, bighellonare” (o peggio “gingillarsi, perdere tempo”), il flâneur è quindi un “perditempo”, un “gentiluomo che vaga per le vie cittadine, provando emozioni nell’osservare il paesaggio”.
  Sono una flâneuse, amo vagare senza meta col solo scopo di camminare, curiosare, stare bene. Ho scoperto di esserlo leggendo questo libro; perciò cercherò di spiegare la flânerie seguendo le parole dell’autore.

AiQuattroVenti racconti di viaggio flanerie

Che cos’è la flânerie 

La flânerie è una passeggiata senza scopo e senza fretta. È andare e guardare, essere liberi di fare – senza fare per forza qualcosa – e di essere – senza essere per forza qualcuno. È un atto libero, un viaggio tra la sorpresa e la rivelazione, la separazione e l’unione.
  È un atteggiamento del cuore, una predisposizione del sentimento, un esercizio dello spirito.

Chi sono il flâneur e la flâneuse

Sono passeggiatori solitari, osservatori e cronisti della vita cittadina. Sono pacati, svagati e in comunicazione con tutto ciò che li circonda. Sovversivi e controcorrente, vanno dove gli altri non vanno. Si sentono a casa ovunque e si perdono per scelta, senza fuggire né smarrirsi.
  Sono poeti che decidono di uscire a farsi travolgere dalla bellezza di quel che incontrano.

Dove vanno, quando e come

I posti privilegiati sono le città: Parigi, New York, Milano, Torino. Ma li trovi anche lungo le strade di campagna, nelle stazioni ferroviarie, nelle piazze, ai capolinea e a una fermata qualunque di un tram.
  In vacanza, la domenica, i giorni di festa. Durante le pause di lavoro, durante il lavoro, mentre viaggiano.
  Con una disposizione d’animo aperta, avventurosa e romantica (ottocentesca). Con curiosità sincera e ingenua, stupore e fiducia. Con buone gambe, udito fine e vista acuta.

Se ti ritrovi in questa descrizione; se la felicità di perderti tra le strade e scoprire nuove fonti di bellezza brilla più di una lista di luoghi-da-vedere-assolutamente; se la libertà di fare ed essere vale più delle tappe stabilite in un viaggio; ecco, sai di cosa sto scrivendo.

Buon vento solitario

AiQuattroVenti racconti di viaggio La gioia del vagare senza meta Roberto Carvelli flanerie

giovedì 20 giugno 2019

Il giro del lago di Varese in otto zampe, quattro gambe e infinite tappe

L’idea ha preso forma pian piano. Quattro chiacchiere con amici, voglia di lunghe passeggiate in famiglia, di domeniche all’aria aperta, di scoprire nuovi paesaggi: perché non facciamo il giro del lago di Varese a piedi?

Il lago di Varese, se lo guardo su una carta, mi sembra un piede medievale rivolto verso destra; se lo guardo dal finestrino della macchina, lo confondo col lago di Comabbio, perché la strada che percorriamo serpeggia tra le due sponde.
  Tutt’intorno al lago di Varese c’è una pista pedociclabile – parola cacofonica con un significato molto piacevole: è vietato il transito ai veicoli a motore, si va solo a piedi e in bicicletta.
  Attraversa nove comuni del Varesotto: Varese, Buguggiate, Azzate, Galliate Lombardo, Bodio Lomnago, Cazzago Brabbia, Biandronno, Bardello, Gavirate. A tratti costeggia il lago, a tratti se ne allontana: si addentra nei boschi, sfiora casotti ricoperti di foglie, poi s’apre su lunghi prati di ville d’altri tempi, s’avvicina a porzioni di palude, diventa una strada di periferia tra due file di villette, fiancheggia la provinciale, all’improvviso si fa lungolago con tanto di panchine, accarezza darsene abbandonate…
  La pista è lunga circa ventotto chilometri. Potremmo farcela in poche tappe, ma ancora non sappiamo quante.

AiQuattroVenti giro del lago di Varese pista ciclopedonale

E così, iniziamo il nostro giro del lago di Varese a settembre dell’anno scorso: siamo in tre, in tutto quattro zampe e quattro gambe.
  Una domenica dopo l’altra, raggiungiamo in macchina il nuovo punto di partenza e percorriamo un’ora di strada, andata e ritorno. Baldo, il nostro canide ha dolori alla schiena e a una zampa, non può camminare per più di un’ora. Perciò noi ci adeguiamo: partiamo a metà mattina, ci fermiamo a pranzare al sacco, torniamo a casa nel primo pomeriggio. Soddisfatti, sereni, forti, con gli occhi pieni di bellezza.
  Poi arrivano l’inverno, il freddo, le piogge di primavera e noi ci fermiamo: basse temperature e umidità non fanno bene a Baldo, meglio aspettare.
  Coi primi soli torniamo in pista: la luce è diversa, gli odori e i suoni nuovi, noi nel frattempo abbiamo aggiunto quattro zampe in più, Flora.

AiQuattroVenti giro del lago di Varese

Non siamo partiti dal chilometro zero a Varese, ma dal punto più vicino a noi: il chilometro tredici a Biandronno. Finora abbiamo percorso quattordici chilometri (tra andata e ritorno), attraversato Biandronno passando accanto all’Isolino Virginia, Bardello, il ponte vicino alle chiuse sul fiume Bardello e siamo arrivati oltre il lido di Gavirate.
  Ancora non so quale paesaggio mi sia piaciuto di più, ma te lo racconterò presto.

Buon vento!

giovedì 13 giugno 2019

Pro e contro dei piccoli musei

Mi piacciono i piccoli musei. Hai presente? Quelli che sbucano all’improvviso lungo una stradina del centro storico o poco più in là della chiesa patronale, con targhe levigate dalla pioggia e dal sole, con nomi che accendono la curiosità e promettono scoperte bizzarre. Ecco, proprio quelli!
  Qui da noi, sul Lago Maggiore e dintorni, ce ne sono a bizzeffe: ogni tanto ne scopro uno nuovo e lo aggiungo alla lista. Mi sono ripromessa di visitarli tutti, sarebbero un’ottima alternativa al solito divano-camino-libro delle fredde domeniche invernali e al mannaggia-piove delle vacanze. Ho iniziato con baldanza il PPM (Programma Piccoli Musei) e presto mi sono accorta di quanto sia meno facile da attuare di quanto pensassi.

  Mi piacciono i piccoli musei, perché raccontano storie uniche di luoghi e persone, ma a volte mi irritano: non si lasciano trovare, dimenticano di avvisare, si concedono col contagocce. Non tutti, ma tanti.
   I piccoli musei sono piccoli anche nelle risorse. La maggior parte sono musei civici gestiti direttamene dal Comune, alcuni sono dati in gestione ad aziende e associazioni culturali, altri fanno parte del circuito dell’Ecomuseo Cusius del lago d’Orta e del Mottarone. Poi ci sono le eccezioni: piccoli musei che diventano grandi, costruiscono reti tra di loro e si fanno conoscere con iniziative ed eventi che coinvolgono adulti e bambini durante l’anno; sono amati da chi li cura e, per questo, lasciano un ottimo ricordo in chi li esplora per la prima volta.

AiQuattroVenti piccoli musei pro-e-contro

AiQuattroVenti piccoli musei pro-e-contro

Sarebbe meraviglioso se i piccoli musei fossero attivi e vivaci per tutto l’anno, dessero l’opportunità a studenti e laureati in beni culturali di fare le loro prime ed entusiasmanti esperienze (pagate il giusto, ovviamente: la dignità sul lavoro vale anche per la cultura) e fossero pieni di visitatori curiosi e appassionati anche nelle fredde domeniche d’inverno.

Buon vento!

venerdì 7 giugno 2019

Entri nel Parco archeologico e Museo di Saint Martin de Corléans e torni indietro nel tempo

Un giorno di settembre, durante le nostre vacanze. Davano tempo instabile, sicché era l’occasione giusta per scappare ad Aosta e fare un vero viaggio a ritroso nel tempo.

Da venticinque anni aspetto questo momento.
  Era un giorno qualsiasi, una lezione come un’altra di Paletnologia; la strada da casa all’università, le biciclette, gli studenti ingiacchettati di giurisprudenza, la porta a vetri troppo moderna nella facciata del rinascimento lombardo, la bacheca con gli annunci, qualche scalino, il corridoio a gomito e infine la solita aula. Le porte ancora chiuse, aspettiamo fuori, io e altre colleghe aspiranti archeologhe. Quando il fiume di studenti ne esce, prendiamo i soliti posti. Estraiamo dalle borse il quaderno degli appunti, le penne, le matite, un paio di registratori e le mini torce – la mia è bianca, decorata con Lisa Simpson, sta in piedi da sola e la lampadina è orientabile. Il professore consegna a uno di noi – sempre il solito, lo chiama per nome – il carrello delle diapositive, fa spegnere le luci – si accendono le mini torce – e inizia a spiegare. Oggi racconta di un sito preistorico dal nome francese, e io m’innamoro perdutamente.
  Da quel giorno non vedo l’ora di visitarlo: è vicino, ad Aosta. È l’area megalitica di Saint-Martin-de-Corléans.

Perciò puoi immaginare come mi sento oggi. Siamo partiti dal Lago Maggiore per raggiungere Aosta, io che non sto più nella pelle, mio marito che guida nel paesaggio tipico del nord-ovest italiano. Attraversiamo le colline moreniche, la pianura coltivata, le risaie, la valle circondata da monti su cui le nuvole grasse di pioggia si fanno il solletico.
  Appena entriamo in città, seguiamo i cartelli marroni che indicano la strada. È un giorno come un altro, c’è poco traffico, i ragazzi sono a scuola, troviamo un parcheggio comodo senza fatica. Sono impaziente. Passato, presente e futuro si mischiano nella mia testa, nelle emozioni e non mi aspetto niente, se non di assaporare quel che vedrò.
  A pochi passi da qui sorgeva un grande centro di culto e di cerimonie durato millenni: la sua sacralità attraversa le epoche successive ed è testimoniata ancora oggi dalla piccola chiesa dedicata a Saint-Martin.

  Le due strutture del museo affiancano la strada guardandosi negli occhi. Sono di acciaio, vetro e sanno di terzo millennio; proteggono un’area archeologica indagata di 10.000 mq, tagliata in due dalla strada che stiamo percorrendo.
  Da una parte il futuro museo che proteggerà e racconterà l’area frequentata nelle età del Bronzo, del Ferro, romana e nel Medioevo. Dall’altra quello inaugurato nel 2016, che conserva e mette in luce le fasi più antiche del sito, dal Neolitico alla prima età del Bronzo (fine V – inizio  II millennio a.C.). In tutto 18.000 mq di Storia.

AiQuattroVenti parco archeologico e museo saint-martin-de-corléans Aosta

Entriamo. Paghiamo i nostri biglietti, seguiamo le indicazioni del personale e ci prepariamo al nostro viaggio nel tempo.
  Una “discesa temporale” ci porta dall’era digitale alla preistoria: è un viaggio a ritroso verso l’inizio della storia e il livello del sito archeologico vero e proprio, a circa sei metri sotto il piano di calpestio odierno. Sono già estasiata.

Appena varco la porta, rimango colpita dalla vastità dell’ambiente. Là in centro, davanti a me, c’è l’area archeologica. Quella vera, scavata da decine di giovani archeologi (poi diventati ricercatori e docenti) per più di vent’anni di indagini e studi scientifici. Non posso fare a meno d’immedesimarmi in loro.
  Poi mi accorgo di un fatto strano: la penombra si trasforma poco alla volta in chiarore e le luci, pian piano, si spostano e illuminano le varie parti dell’area. “Guarda!” esclamo, “Sembra il sole che si alza, attraversa il cielo e se ne va. E poi c’è la notte!” Col naso all’insù, osserviamo le luci che simulano il passaggio del tempo nelle ore della giornata: dall’alba al tramonto, dal giorno alla notte.
  Illuminano l’area archeologica – la vera protagonista –, mettono in evidenza le strutture scavate nel terreno e quelle in elevato della fase megalitica del sito, ed evocano il collegamento tra gli antichi monumenti e i fenomeni celesti – equinozi, solstizi, le posizioni del Sole e della Luna che segnano le stagioni.

AiQuattroVenti area megalitica saint-martin-de-corl{ans

Cammino sulla passerella che circonda e si affaccia sull’area archeologica. Ci sono pannelli, video, disegni sul pavimento e sulle pareti che spiegano la scoperta, le indagini, le singole fasi di frequentazione del sito e i monumenti: leggi una descrizione, ti giri e guardi con occhi nuovi gli originali. Se poi hai fortuna, ti capita di vedere gli archeologi al lavoro, mentre raccolgono, fotografano, studiano i reperti ancora in situ.
  Il museo è formato da sei sezioni che seguono e ricostruiscono le fasi più antiche dell’area archeologica: le tracce di arature del Neolitico, i pozzi, gli allineamenti di pali, gli allineamenti di stele antropomorfe e le tombe monumentali del III millennio a.C.
  In una sala a parte sono allineate, senza sostegni (in un video mostrano come hanno fatto), le statue-stele originali (quelle sullo scavo sono repliche). Sono così vicine, che sto per toccarne la superficie e seguire i solchi dei motivi incisi…

In apparenza il Parco archeologico e Museo di Saint Martin de Corléans è una struttura che conserva i monumenti di una grande e antica area di culto, lasciati là dove sono stati rinvenuti; in realtà è un ambiente vivo, in cui scavi, ricerche, reperti, sezioni museali e visitatori interagiscono tra di loro.
Ho studiato tutto questo – l’area archeologica, le fasi, le statue-stele, le tombe – anni fa. Essere qui e ora, a un passo dal suolo calpestato in antico dalle genti del luogo, mi fa sentire tutta la potenza della Storia. Davvero questo posto è magico: riesce a portarmi indietro nel tempo pur rimanendo profondamente nel presente.

AiQuattroVenti saint-marti-nde-corléans Aosta

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...